martedì 28 gennaio 2014

La battaglia di Tsushima

La battaglia di Tsushima (27-28 maggio 1905) fu l'atto conclusivo della guerra russo-giapponese, combattuta tra il febbraio del 1904 e il maggio dell'anno successivo. Il conflitto contrappose l'Impero russo e quello giapponese, al tempo potenza militare ed economica in ascesa, che aveva l'obiettivo di egemonizzare l'intero estremo oriente. Motivo del contendere il possesso della Manciuria, regione della Cina ai confini con i territori dell'Impero russo, e il controllo della penisola coreana. Furono i giapponesi a dare il via alle ostilità attaccando, senza dichiarazione di guerra, la base militare russa di Port Arthur, nome che corrisponde all'attuale città cinese di Lushunkou. La notte tra l'8 e il 9 febbraio 1904 la squadra giapponese, guidata dall'ammiraglio Togo, colpì le navi russe con i cannoni e i siluri: la flotta dello zar subì gravi danni che richiesero lunghi lavori di riparazione. Nel frattempo Port Arthur fu assediata dai giapponesi da terra e dal mare. Per i russi si trattava di un duro colpo al quale bisognava assolutamente rispondere. Intanto il mondo guardava con stupore all'audacia dei marinai e dei soldati giapponesi. Nella primavera di quell'anno i cantieri navali russi lavorarono a pieno regime per completare o allestire ex novo una flotta con la quale affrontare i giapponesi. Furono costruite in poco tempo e con grandi investimenti quattro corazzate (Borodino, Orel, Knaz Suvorov, Alessandro III) ritenute il miglior prodotto della cantieristica dell'epoca. Il comando della flotta fu assegnato dallo zar Nicola II  all'ammiraglio Zinovij Petrovic Rozestvenskij. L'impresa che attendeva i russi era a dir poco titanica: attraversare tre oceani e, dopo un viaggio lungo 11 mila kilometri e parecchi mesi, affrontare un nemico temibile che, al contrario, combatteva a poca distanza dalle proprie basi. 
Nonostante tutto, la flotta russa partì da Libava (Ljepajia, nell'odierna Lettonia) il 4 ottobre 1904. Fin da subito l'ammiraglio Rozestvenskij prese coscienza dei limiti drammatici degli uomini e dei mezzi che gli erano stati affidati. Le navi, comprese le moderne corazzate, a causa di una serie di difetti strutturali, consumavano più carbone del previsto; i motori andavano soggetti a frequenti avarie; i meccanismi di puntamento delle artiglierie erano difettosi; il munizionamento di qualità scadente; scadenti pure gli apparecchi di comunicazione radiotelegrafica. Ancora più deplorevole il livello degli equipaggi. Per molti marinai quella era la prima missione: parecchi di loro soffrivano il mal di mare (!) e cosa, ancora peggiore e incredibile, non erano stati sufficientemente istruiti all'uso dell'armamento di bordo. Un drammatico incidente funestò la prima parte del viaggio: una notte, al largo delle coste inglesi, la flotta russa sparò praticamente alla cieca e colpì alcuni pescherecci scambiandoli per torpediniere giapponesi (!). Si contarono diversi morti e il governo britannico reagì violentemente: la missione fu sul punto di fallire. Giunta nei pressi di Gibilterra la flotta si separò: alle navi più vecchie e lente fu ordinato di attraversare il Mediterraneo e il canale di Suez, mentre Rozestvenskij con le navi più moderne, corazzate comprese, avrebbe circumnavigato l'Africa.  
La Knaz Suvorov, ammiraglia della flotta russa
Il punto di ritrovo tra le due squadre fu posto a nord del Madagascar. Il viaggio intorno all'Africa delle navi di Rozestvenskij fu tormentato da una lunga sequela di imprevisti (guasti, avarie, difficoltà nei rifornimenti di viveri e carbone) che misero a  dura prova il morale degli equipaggi. La flotta si riunì nella baia di Nosy Be, in Madagascar, nel gennaio del 1905 e lì apprese della caduta di Port Arthur dopo un assedio durato quasi un anno. La notizia depresse ulteriormente i marinai, già fiaccati dal clima e dalle malattie tropicali. Con la conquista giapponese di Port Arthur, l'intera missione aveva perduto il suo significato, ma Rozestvenskij ricevette l'ordine di proseguire ugualmente. La navi russe andarono così incontro al proprio destino. Attraversato l'Oceano Indiano, oltrepassarono lo stretto di Malacca ed entrarono nel Mar della Cina. I giapponesi con i loro battelli spia osservavano con attenzione e comunicavano tempestivamente ogni mossa. All'alba del 27 maggio 1905 i russi giunsero finalmente (dopo nove mesi di navigazione!)  nello stretto di Tsushima che separa il Giappone dalla penisola coreana. Pattugliatori giapponesi individuarono i fari di una nave ospedale russa che seguiva in retroguardia il resto della flotta e via telegrafo segnalarono immediatamente la posizione del nemico. Lo scontro era ormai prossimo. Sui ponti delle navi i marinai ricevettero la benedizione dei popi in nome dello zar e della madre Russia. 

Pope celebra la messa a bordo di una nave russa.
Ricevuta la notizia, l'ammiraglio Togo si mise in mare con la sua imponente flotta che comprendeva anche le moderne corazzate Mikasa (nave ammiraglia, ancora oggi perfettamente conservata e venerata dai giapponesi come monumento nazionale) Asahi, Sikishima, Fuji. La squadra russa avanzava su due file parallele in direzione sud-nord: apriva la formazione l'ammiraglia Knaz Suvorov, dalla quale Rozestvenskij dirigeva le operazioni. 
La flotta giapponese, al contrario, andava incontro al nemico seguendo una linea orizzontale rispetto ad esso. Questo costituiva un decisivo vantaggio per i nipponici, i quali avrebbero potuto scaricare contro i russi una maggiore potenza di fuoco. Oltre a ciò le navi giapponesi avevano una velocità  doppia rispetto a quelle russe (16 nodi rispetto ad 8) già provate da un lungo e tormentato viaggio. I primi ad aprire il fuoco furono i russi: la Knaz Suvorov sparò due colpi da 305mm contro la Mikasa senza produrre eccessivi danni. La risposta fu terribile: i giapponesi aprirono un intenso fuoco contro le moderne corazzate che costituivano la spina dorsale della flotta russa.
La Mikasa, oggi, trasformata in nave museo.
Una dopo l'altra le corazzate russe furono devastate dagli scoppi e dagli incendi (i giapponesi utilizzarono proiettili caricati con una particolare miscela incendiaria, lo shimose). Uno dei colpi raggiunse la torre di comando della Knaz Suvorov, ferendo gravemente l'ammiraglio Rozestvenskij  e facendo strage di ufficiali e marinai. Contro la sua volontà, Rozestvenskij semisvenuto fu evacuato dalla nave e tratto in salvo su una torpediniera. In poco più di un'ora tutte le corazzate tranne l'Orel, gravemente danneggiata, furono colate a picco. La flotta russa, privata del suo comandante e delle navi più potenti, si sbandò e la battaglia si trasformò in una caccia nella quale i russi erano diventati una facile preda. Non mancarono casi di eroismo, ma tutto era deciso ormai irrimediabilmente. Gli scontri si prolungarono fino all'indomani 28 maggio, quando all'ammiraglio Nikolai Nebogatov (subentrato a Rozestvenskij al comando della flotta) non rimase altro che alzare bandiera bianca e consegnare le poche navi superstiti ai giapponesi. Complessivamente i russi persero una ventina navi; quattromila marinai morirono e cinquemila rimasero feriti. In Russia la notizia del disastro e ancor più le sue dimensioni furono accolte come una catastrofe nazionale. Lo stesso zar e il suo governo furono accusati di leggerezza e inefficienza. Una flotta costata milioni di rubli era stata vergognosamente sconfitta. Una spesa enorme per un paese tanto grande quanto ancora arretrato: gli operai nelle città sopravvivevano a sento, mentre nelle campagne i contadini facevano letteralmente la fame. Per placare la rabbia servivano capri espiatori: non potendosi scagliare contro Rozestvenskij, il quale ferito gravemente si era comunque comportato con dignità e onore, gli strali si concentrarono su Nebogatov che si era arreso al nemico. Rientrato in Russia fu processato per tradimento, viltà e resa disonorevole al nemico. Condannato a morte, la pena fu poi commutata dallo zar in una lunga reclusione nella fortezza militare di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Con la sconfitta di Tsushima terminarono definitivamente le velleità espansionistiche russe in estremo oriente. Il Giappone, al contrario, prese le mosse proprio da quella vittoria per estendere lentamente ma inesorabilmente la propria egemonia in quell'area, presentandosi agli occhi del mondo come una potenza militare ed economica da tenere in debita considerazione.


martedì 17 dicembre 2013

Il blitz di Pola


Le corazzate austro-ungariche nel porto di Pola
Imbaldanzita dall'affondamento della corazzata Szent Istvan (10 giugno 1918) la Regia Marina pianificò un'azione ancora più clamorosa: colpire la marina austro-ungarica all'interno della sua base, il munitissimo porto di Pola. L'azione, lungamente preparata, si svolse la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918. La guerra stava per concludersi e l'esercito austriaco era ormai sconfitto, ma la Marina voleva terminare le operazioni con un' ultima brillante impresa. Agli alti comandi italiani forse non era ignoto il fatto che a Pola la situazione si faceva sempre più difficile: i marinai provenienti dai diversi territori del morente impero (cechi, ungheresi, sloveni, croati, ma soprattutto istriani e dalmati) non volevano più combattere e davano segni di una crescente insofferenza a stento contenuta dagli ufficiali che, per mantenere l'ordine, spesso consegnavano gli equipaggi sulle navi. Ad ogni modo, la missione fu affidata a due ufficiali del genio navale: Raffaele Paolucci e Raffaele Rossetti. Paolucci e Rossetti riuscirono a penetrare nel porto di Pola a cavalcioni di una mignatta, una sorta si siluro a motore dotato di cariche esplosive. Aiutati dalle tenebre raggiunsero la corazzata Viribus Unitis ("Viribus Unitis!" era il grido di battaglia della marina austro-ungarica) e applicarono le cariche esplosive magnetiche sotto la linea di galleggiamento della murata. Mentre stavano per allontanarsi, furono illuminati dal fascio di un proiettore elettrico. Presi prigionieri, vennero portati a bordo proprio della Viribus Unitis. Trascorsa qualche ora chiesero di parlare con il capitano e gli dissero che la nave era minata e che provvedesse a mettere in salvo l'equipaggio. Resosi conto che non c'era più nulla da fare, il comandante ordinò l'abbandono della nave. L'ora prevista per l'esplosione passò senza che nulla accadesse. Il capitano, credendo che gli italiani l'avessero ingannato, ordinò il rientro a bordo. Un'atroce fatalità volle che le cariche esplodessero proprio quando l'equipaggio aveva fatto ritorno sulla Viribus Unitis. Lo scafo fu squarciato dalle detonazioni che raggiunsero anche il deposito delle munizioni. Colpita, la nave si piegò su un fianco per poi affondare. Nella tragedia morirono 400 marinai, compreso il comandante.

giovedì 12 dicembre 2013

L'impresa di Premuda


La Szent Istvan mentre affonda
La notte tra il 9 e 10 giugno 1918 parte dell'imperial-regia flotta da guerra austro-ungarica uscì dal porto di Pola con l'intenzione di ingaggiare battaglia con la squadra italiana nel basso adriatico. Fino a quel momento le grandi navi da guerra erano rimaste ancorate nei rispettivi porti (Pola e Taranto), lasciando il campo a naviglio di più piccole dimensioni (incrociatori leggeri e torpediniere) che meglio si adattava ad un mare stretto e poco profondo come l'Adriatico. La squadra austriaca era guidata da due moderne e potenti corazzate, la Tegetthoff (in omaggio all'ammiraglio che sconfisse gli italiani a Lissa nel 1866) e la Szent Istvan (Santo Stefano), scortate da più di una ventina di navi di minore tonnellaggio. Intorno alle 3:15 del 10 giugno due Mas italiani (motoscafi d'altura armati con una coppia di siluri) guidati dal capitano di corvetta Luigi Rizzo, incrociarono le navi austriache nei pressi di Premuda, isola situata nei dintorni della città dalmata di Zara. L'attenzione di Rizzo fu attirata da dense volute di fumo nero che si stagliavano all'orizzonte: le corazzate, infatti, stavano procedendo con i motori al massimo e le caldaie, continuamente alimentate dai fuochisti, bruciavano grandi quantità di carbone. Protetti dalle ultime tenebre, i Mas si diressero verso il nemico: le veloci imbarcazioni riuscirono a penetrare le maglie delle navi di scorta, giungendo a tiro delle corazzate. Rizzo puntò sulla Szent Istvan, mentre il secondo Mas guidato dal guardiamarina Aonzo si diresse contro la Tegetthoff. La Szent Istvan fu colpita in pieno da due siluri, quelli lanciati contro la Tegetthoff, invece, non andarono a segno. Rabbiosa fu la reazione delle navi di scorta, ma i due motoscafi, grazie alla loro velocità, riuscirono a sganciarsi e a far ritorno ad Ancona donde erano partiti. I Mas rientrarono in porto issando la "bandiera grande" (un tricolore di grandi dimensioni) per segnalare il felice esito della missione. Per tutta risposta il naviglio all'ancora in porto li salutò con fischi e sirene. Intanto la Szent Istvan, colpita a morte e ormai ingovernabile (uno dei siluri aveva praticamente distrutto la sala macchine), iniziò ad imbarcare acqua e ad inclinarsi su un fianco. La nave affondò alle ore 6:00 del mattino, portando con sé 80 dei 1000 uomini componenti l'equipaggio. Le drammatiche fasi dell'affondamento furono filmate con una cinepresa da un operatore che si trovava sulla corazzata gemella Tegetthoff. Quella di Premuda fu, probabilmente, la più brillante operazione della Marina Militare Italiana (allora denominata Regia Marina) che celebra la propria festa il 10 giugno in ricordo di quell'audace impresa.

martedì 3 dicembre 2013

Lo Spielberg

Lo Spielberg è una famigerata fortezza che sorge nei pressi della città di Brno, nell'attuale Repubblica Ceca. Edificata a partire dal XII secolo, conobbe vari utilizzi (castello, caserma, ecc...), finché l'imperatore d'Austria Giuseppe II d'Asburgo (famoso per le sue riforme ispirate ai principi dell'Illuminismo!), nel 1783, la trasformò in un carcere di massima sicurezza. Nel corso dell'Ottocento, lo Spielberg accrebbe la sua sinistra fama, poiché diventò il luogo di reclusione di tutti i prigionieri politici che lottavano per l'indipendenza delle loro nazioni, sottomesse all'Impero d'Austria. Tra loro ci furono anche molti patrioti italiani del Risorgimento: si pensi soltanto a Pietro Maroncelli e a Silvio Pellico che ripercorrerà la sua dolorosa vicenda nell'opera Le mie prigioni. I reclusi, spesso ammalatisi a causa dell'insalubrità del luogo, scontavano un vero e proprio supplizio: languivano con i piedi incatenati alle pareti dei cubicoli; non potevano parlare tra loro; non ricevevano posta né potevano avere visite o generi di conforto. Le loro durissime condizioni suscitarono ondate di protesta in gran parte d'Europa, tanto da spingere, nel 1855, l'imperatore Francesco Giuseppe a chiudere il complesso carcerario e a riconvertirlo in caserma.