martedì 17 dicembre 2013

Il blitz di Pola


Le corazzate austro-ungariche nel porto di Pola
Imbaldanzita dall'affondamento della corazzata Szent Istvan (10 giugno 1918) la Regia Marina pianificò un'azione ancora più clamorosa: colpire la marina austro-ungarica all'interno della sua base, il munitissimo porto di Pola. L'azione, lungamente preparata, si svolse la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918. La guerra stava per concludersi e l'esercito austriaco era ormai sconfitto, ma la Marina voleva terminare le operazioni con un' ultima brillante impresa. Agli alti comandi italiani forse non era ignoto il fatto che a Pola la situazione si faceva sempre più difficile: i marinai provenienti dai diversi territori del morente impero (cechi, ungheresi, sloveni, croati, ma soprattutto istriani e dalmati) non volevano più combattere e davano segni di una crescente insofferenza a stento contenuta dagli ufficiali che, per mantenere l'ordine, spesso consegnavano gli equipaggi sulle navi. Ad ogni modo, la missione fu affidata a due ufficiali del genio navale: Raffaele Paolucci e Raffaele Rossetti. Paolucci e Rossetti riuscirono a penetrare nel porto di Pola a cavalcioni di una mignatta, una sorta si siluro a motore dotato di cariche esplosive. Aiutati dalle tenebre raggiunsero la corazzata Viribus Unitis ("Viribus Unitis!" era il grido di battaglia della marina austro-ungarica) e applicarono le cariche esplosive magnetiche sotto la linea di galleggiamento della murata. Mentre stavano per allontanarsi, furono illuminati dal fascio di un proiettore elettrico. Presi prigionieri, vennero portati a bordo proprio della Viribus Unitis. Trascorsa qualche ora chiesero di parlare con il capitano e gli dissero che la nave era minata e che provvedesse a mettere in salvo l'equipaggio. Resosi conto che non c'era più nulla da fare, il comandante ordinò l'abbandono della nave. L'ora prevista per l'esplosione passò senza che nulla accadesse. Il capitano, credendo che gli italiani l'avessero ingannato, ordinò il rientro a bordo. Un'atroce fatalità volle che le cariche esplodessero proprio quando l'equipaggio aveva fatto ritorno sulla Viribus Unitis. Lo scafo fu squarciato dalle detonazioni che raggiunsero anche il deposito delle munizioni. Colpita, la nave si piegò su un fianco per poi affondare. Nella tragedia morirono 400 marinai, compreso il comandante.

giovedì 12 dicembre 2013

L'impresa di Premuda


La Szent Istvan mentre affonda
La notte tra il 9 e 10 giugno 1918 parte dell'imperial-regia flotta da guerra austro-ungarica uscì dal porto di Pola con l'intenzione di ingaggiare battaglia con la squadra italiana nel basso adriatico. Fino a quel momento le grandi navi da guerra erano rimaste ancorate nei rispettivi porti (Pola e Taranto), lasciando il campo a naviglio di più piccole dimensioni (incrociatori leggeri e torpediniere) che meglio si adattava ad un mare stretto e poco profondo come l'Adriatico. La squadra austriaca era guidata da due moderne e potenti corazzate, la Tegetthoff (in omaggio all'ammiraglio che sconfisse gli italiani a Lissa nel 1866) e la Szent Istvan (Santo Stefano), scortate da più di una ventina di navi di minore tonnellaggio. Intorno alle 3:15 del 10 giugno due Mas italiani (motoscafi d'altura armati con una coppia di siluri) guidati dal capitano di corvetta Luigi Rizzo, incrociarono le navi austriache nei pressi di Premuda, isola situata nei dintorni della città dalmata di Zara. L'attenzione di Rizzo fu attirata da dense volute di fumo nero che si stagliavano all'orizzonte: le corazzate, infatti, stavano procedendo con i motori al massimo e le caldaie, continuamente alimentate dai fuochisti, bruciavano grandi quantità di carbone. Protetti dalle ultime tenebre, i Mas si diressero verso il nemico: le veloci imbarcazioni riuscirono a penetrare le maglie delle navi di scorta, giungendo a tiro delle corazzate. Rizzo puntò sulla Szent Istvan, mentre il secondo Mas guidato dal guardiamarina Aonzo si diresse contro la Tegetthoff. La Szent Istvan fu colpita in pieno da due siluri, quelli lanciati contro la Tegetthoff, invece, non andarono a segno. Rabbiosa fu la reazione delle navi di scorta, ma i due motoscafi, grazie alla loro velocità, riuscirono a sganciarsi e a far ritorno ad Ancona donde erano partiti. I Mas rientrarono in porto issando la "bandiera grande" (un tricolore di grandi dimensioni) per segnalare il felice esito della missione. Per tutta risposta il naviglio all'ancora in porto li salutò con fischi e sirene. Intanto la Szent Istvan, colpita a morte e ormai ingovernabile (uno dei siluri aveva praticamente distrutto la sala macchine), iniziò ad imbarcare acqua e ad inclinarsi su un fianco. La nave affondò alle ore 6:00 del mattino, portando con sé 80 dei 1000 uomini componenti l'equipaggio. Le drammatiche fasi dell'affondamento furono filmate con una cinepresa da un operatore che si trovava sulla corazzata gemella Tegetthoff. Quella di Premuda fu, probabilmente, la più brillante operazione della Marina Militare Italiana (allora denominata Regia Marina) che celebra la propria festa il 10 giugno in ricordo di quell'audace impresa.

martedì 3 dicembre 2013

Lo Spielberg

Lo Spielberg è una famigerata fortezza che sorge nei pressi della città di Brno, nell'attuale Repubblica Ceca. Edificata a partire dal XII secolo, conobbe vari utilizzi (castello, caserma, ecc...), finché l'imperatore d'Austria Giuseppe II d'Asburgo (famoso per le sue riforme ispirate ai principi dell'Illuminismo!), nel 1783, la trasformò in un carcere di massima sicurezza. Nel corso dell'Ottocento, lo Spielberg accrebbe la sua sinistra fama, poiché diventò il luogo di reclusione di tutti i prigionieri politici che lottavano per l'indipendenza delle loro nazioni, sottomesse all'Impero d'Austria. Tra loro ci furono anche molti patrioti italiani del Risorgimento: si pensi soltanto a Pietro Maroncelli e a Silvio Pellico che ripercorrerà la sua dolorosa vicenda nell'opera Le mie prigioni. I reclusi, spesso ammalatisi a causa dell'insalubrità del luogo, scontavano un vero e proprio supplizio: languivano con i piedi incatenati alle pareti dei cubicoli; non potevano parlare tra loro; non ricevevano posta né potevano avere visite o generi di conforto. Le loro durissime condizioni suscitarono ondate di protesta in gran parte d'Europa, tanto da spingere, nel 1855, l'imperatore Francesco Giuseppe a chiudere il complesso carcerario e a riconvertirlo in caserma.