mercoledì 20 novembre 2013

Giuseppe Daciano: un fondamentale contributo alla medicina moderna


Secondo lo storico Giuseppe Liruti «nacque nella nobile terra di Tolmezzo capitale di Tutta la Carnia nostra montuosa»; mentre Fabio Quintiliano Ermacora, storico tolmezzino vissuto nel XVI secolo, nel suo De antiquitatibus Carneae, data la sua nascita intorno all’anno 1500. Sempre secondo il Liruti si laureò in medicina a Padova, in seguito tornò a Tolmezzo per esercitare la professione, finché non fu chiamato a Udine per ricoprire l'incarico di «Dottor fisico cittadino». Nel 1575 diede alle stampe Trattato delle Peste et delle Petecchie, nel quale analizza le cause delle differenti tipologie di peste e propone diverse e per l'epoca innovative terapie, anticipando di quasi un secolo il metodo scientifico che si affermerà a partire dalla metà del XVII secolo.  La sua data di morte non è certa ma, con ragionevole sicurezza, la si può far risalire al 1576: pare sia rimasto vittima di un'epidemia scoppiata nell’estate di quell'anno, mentre si prodigava per arginare la diffusione del morbo.
Insolito e per questo degno d’interesse è il fatto che Daciano scelse di scrivere la sua opera in volgare, particolare che gli procurò non poche critiche presso gli ambienti accademici dell’epoca. 
Ai detrattori che gli rimproveravano di aver abbandonato il latino, egli risponde che la sua scelta è ricaduta sul volgare «per brama di giovare a molti (benché) sappia l’uomo essere di natura fragile, e caduca si fattamente, che non trovi rimedio alcuno contra la morte […] nondimeno con la cura, e buon governo suo, e de Medici intendenti può ben reggere, e sostentare in vita se stesso; e schernendosi da gli artigli della morte empia, e violenta, tanto oltre da condurre gli anni suoi, quanto le forze ne l’huomo infuse, e regolate dal divin consiglio nel comportano». Nel primo capitolo della sua opera il medico tolmezzino – citando ripetutamente Platone, Aristotele, Ippocrate, Galeno, Avicenna, considerati all’epoca le massime autorità in campo medico –  descrive le differenti tipologie e sintomi della Peste, la quale può manifestarsi attraverso «le petecchie […] certe macchie ò nere, ò pavonazze grandi come lenticchie, le quali con febbre maligna appareno nella superficie de i corpi à tempo di morbo nelli primi tre giorni […] Le postreme overo Buboni pestiferi […] sono certi tumori, overo enfiature, le quali con grave e pestilente febbre contagio fa in tempo di peste sogliono nelli emontorij, cioè nelli lochi giandulosi come è dietro l’orecchie, sotto le braccia, e nell’anguinaglia con immenso dolore apparisce […] Li carboni poi, overo antraci sono la terza specie della Peste, li quali indifferentemente nascono per tutto il corpo con febbre maligna, e pestilente, e sono di più qualitadi, cioè alcuni piani, e negri, altri veramente rilevati, e bianchi, à modo di vesciche, ò pustole fatte, ò provenute per scottatura di fuoco, e questi sono anco secondo però la sua maggiore, ò minore adustione, più e meno maligni, e mortali».
Ma quali sono le invisibili cause che scatenano queste terribili calamità? Per il nostro medico sono essenzialmente due: «L’aere veramente putrido e maligno che si fa, secondo alcuni, per via di certe maligne costellazioni, e pessimi influssi, come sarebbe à dire la congiuntione di Marte con Saturno, e per l’Eclisse Lunare, e per altri, simili pessimi influssi, ò per via di moltitudine di corpi morti non sepoltj, ò per via di lacune, e cloache fetide, dalle quali nell’estremo caldo certi vapori pessimi sogliono dalli venti in aria levarsi […] L’altra causa per la quale si può generare la Peste è […] la corruttione de gli humori interni, li quali per il mal, e irregolato modo di vivere si generano così negli uomini ricchi per la varietà, e repletione de’cibi, come anco nelli poveri per lo dissagio, e pessimo nodrimento di quelli». È altresì possibile che la diffusione contagio possa essere condizionata anche da fattori ambientali, legati all’avvicendarsi del ciclo delle stagioni: «Si come li quattro tempi dell’anno sono di natura tra loro molto differenti così anco sono quelli più, e meno inchinati, e pronti alla pestilenza. Ma quanto maggiormente le mutazioni sono grandi, e ineguali tanto più partoriscono grandissimi e pernitiosi mali […] ogni volta, che la temperatura delle sue stagioni sarà dal natural abito suo alla calidità, e humidità troppo smisuratamente mutata […] grandemente fomenta la putrefattione, e corrutione degli humori interni, e però sempre nel novilunio, e nella volta della luna più facilmente si scopre la Peste, che nell’altro tempo onde si vede anco che la primavera la quale è di natura sua temperata e salutifera […] ogni volta, che essa eccederà da questo suo proprio, e natural temperamento, e che si faccia oltre modo pluviosa […] dico che facilmente nella primavera si genereranno febbri pestilenziali, e perniciose, e conseguentemente la peste […] Et sopravvenendo poi l’estate, la quale non ha di sua natura humido molto, ma caldo, e secco assai è atta a ricevere la Peste: percioché il caldo immoderato è padre e causa principale della putrefattione, e susseguentemente della Peste. Ma avvicinandosi poi l’autunno di novo piglia vigore, e forza maggiore  […] per cagione delle molte mutazioni, e in qualità della constitution sua, la quale hora è calda, e hora fredda,  hora di pioggia, e hora di sereno  […] Et però l’autunno essendo di natura sua iniquo alla natura humana, dispone li corpi, e prepara gli humori à corrompersi, e putrefarsi più in questo tempo». Daciano, proseguendo con suoi arditi ma non sempre infondati ragionamenti, individua una sorta di legame tra le «etadi» (l’età anagrafica e biologica dei pazienti) e la temperatura corporea, la quale, se elevata, rientra tra i sintomi più inequivocabili della peste: «la prima adunque temperatura che più disposta à questa pessima influentia è la sanguigna, per essere calda e humida, la secondo è la Colerica, qual è calda, e secca, la terza è la Flematica per esser fredda e humida, la quarta e ultima, overo la men disposta, è la Malinconica, essendo fredda e secca. Il simile diremo delle etadi, le quali essendo proporzionate alle temperature, e alli quattro tempi dell’anno sono parimente tutte chi più, chi meno sottoposte alla Peste. La prima età adunque, overo la più disposta ad appestarsi è la infantia, la quale contenendo in sé la puerizia ha principio dal nascimento, e dura fino alli anni quattordici, e questa età per essere calda e humida, e più delle altre insaziabile, e dedita al sonno è anco più facile, e meno renitente à ricevere morbi contagiosi […] la seconda età cioè la manco disposta della prima ad appestarsi si è la pubertà, la quale è calda e secca, e contiene in sé l’adolescentia e la gioventù. La pubertà […] ha principio da gli anni 14 e dura fino alli 25. Et la gioventù poi, la qual è chiamata anco età florida principia da gli anni 25 e perdura fino alli 35 e questa età per darsi disonestamente alla lussuria, e al vivere irregolato facilmente anco è disposta à ricevere questi morbi contagiosi, e mortali. La terza età è dalli Dottori chiamata virilità, overo età di consistentia, la quale per esser di sua natura fredda, e humida, è anco men parata alli suddetti contagiosi mali, e principia dal anno 35 e finisse al 49. La quarta e ultima età è la vecchiezza, la quale si divide in tre parti. La prima incomincia da gli anni 50 e dura fino alli 60 […] la seconda comincia da gli anni 60 e finisce alli 70 e la terza dalli 70 e dura infino all’ultimo della vita […] Ma questa quarta età, se bene universalmente più participa del freddo, e secco, che le altre tre suddette, nondimeno essendo ella troppo otiosa è ancora alle volte abondevole d’humori escrementosi, perciò affatto non è libera, ne sicura in tutto, si dee tenere, di non esser atta à potersi appestare. Perilchè nessuno si fidi d’andare, e praticare intrinsecamente, con appestati, con speranza di non ammorbarsi […] perché ne complessione alcuna, ne alcuna età è certa a non potersi praticando con ammorbati infettare». Tuttavia, secondo Daciano, la peste “udinese” è anomala poiché essa non è generata «dagli elementi e primo non dal fuoco […] che tutti gli elementi si putrefanno, ecceto il fuoco […] Non dall’aere, perché […] l’aere non si corrompe, né putrefare si può […] Non è provenuta da constitutione calda, e humida, perché essendo quella stata universale, non dico solo al circuito di Udine; ma almeno à tutt’il Friuli, seguirà che anco tutto quello fusse stato per tal intemperie ammorbato. Non è meno generata da guerre, per le quali morendo in grandissimo numero, e restando corpi nel sangue immersi, e insepolti li vapori fetidi che da quelli sariano, mediante li venti e raggi del Sole, in aria elevati, facilmente hariano putrefatto e corrotto l’ambiente circonvicino […] Non dalle acque, percioche tali ò sono correnti o stagne. Non dalle correnti, perché il moto è contrario alla putrefattione […] Meno anco da acque stagne […] per esserne poca copia così nella Città, come anco nelle fosse di quella, e li luoghi circonvicini». La vera causa dell’epidemia è da imputare, invece, ai «perfidi e maledetti Hebrei con le robbe loro ammorbate, e rubbate in Capodistria ne fù  portata alle feste della loro Pasqua, che fu alli 26 Marzo MDLVI. Contra liquali se bene rigorosa giustitia  non è stato usata, come giustamente meritavano, pigliando esempio del ETTERNO DIO, il quale per la loro incredulità, e perfidia gli ha distrutto il suo regno, e banditi dalla GLORIA DEL CIELO; pur sono stati per si grande e incredibil danno della nostra Magnifica città di Udine per universal consenso dal Magnifico consiglio di quella banditi, e mandati in esilio con la perversa discendenza loro […] La onde essendo una di queste ebree di parto morta, senza che fusse stata altrimenti visitata da medici, e indi poi à pochi giorni  in  e due di quelle bestie, e figlioli della morta, la Peste hebbe in Udine principio nella contrada chiamata il borgo del Fieno, in una casa sopra la quale per segno è scritto questa parola, MEMINI, nella quale dicesi altra volta che fù questa pessima influentia dell’anno della Natività del NOSTRO SIGNORE 1511 havere incominciato anco la Peste, per la quale morirono à migliaia di persone: onde non senza causa fu scritto con lettere Maiuscole il sopra scritto Ricordo». Il forte e violento pregiudizio antisemita che emerge dalle parole di Daciano, era un sentimento molto diffuso in ampi strati della società del tempo e aveva lontane radici nel tempo: già durante la grande peste del 1348, infatti, in varie parti d’Europa le comunità ebraiche, ritenute responsabili del contagio, vennero ferocemente attaccate dalla popolazione.Al primo fondato sospetto di epidemia la principale preoccupazione di Daciano, «si come al Medico è di somma eccellenza antivedere, e pronosticare i morbi che alla giornata possono occorrere all’uomo», è quella di predisporre alcune misure atte a contenere la diffusione del contagio, perciò «prima e subitamente bisognerebbe ricorrere con cordiali orazioni, voti, e digiuni al Signor Dio clemetissimo Redentor nostro […] Oltre di ciò si doveria etiandio fare […] continui fuochi per tutta la Città accesi, e fatti con odoriferi legni, che vadano infino al cielo. Ma se tali fuochi così accesi per tutta la città paressero difficili, e impossibili à farsi, si potranno almeno fare nelle particolari case, e nelle stanze, ove più frequentemente s’harà d’abitare e pratticare». Se tali precauzioni non dovessero risultare sufficienti, allora è necessario «che si facesse Processione solenne nel secondo giorno delle Pentecoste […] Secondariamente […] che tutte le strade, e luoghi della Città fussero tenuti netti di letami, e da ogni fango e lordezza mondati. E sopra tutto li luoghi delle Beccarie, e pescarie […] A nessun modo è permesso, che robbe di bamabaso, di lino, di lana, di seta, ò piume, ò pelle, ò qual’altra sorte esser si voglia fussero portate à vendere per la Città […] con gravi pene prohibito il vendere, e comprare cose guaste, come vini versati, carne fetide, pesci puzzolenti, herbazzi, e legumi sobboliti e altre cose, che facilmente si corrompono, come sono fruttami, e specialmente ciliegie, cocomeri, e meloni […] Ma oltre di ciò anco per schifare in tutto la contagione, che da alcuni animali facilmente si potria pigliare, come sono li porci, li cani, e le gatte,è prohibito, con pena alli padroni loro, che non li lasciassero andar di giorno, ne di notte per la città vagando; pericoche questi animali sono atti a ricevere contagione pestifera». Le abitazioni dei malati dovevano essere necessariamente evacuate dalle «robbe infettate, come dalle lordezze, li balconi lassati aperti per 15 o 20 giorni, e notti di continuo, acciò l’aere d’ogni intorno potesse largamente entrare, e sgombrare quel maligno influsso», in seguito era necessario purificare le stanze con «fiori di Camamilla, di Rosmarino, scorza di Cedro, Cannella fina, legno Aloe, Sandali Citrini, Origani, Mentha, Melissa, ecc.», oppure «con trezze d’aglio, ò con scarpe vecchie, con pece, e zolfo […] et fatti che erano questi profumi, si aduna una quantità di calcina viva, più o meno però secondo il bisogno, e grandezza della casa, ch’era per bianchegiarse, e si imorzava nel luogo, ove più ammorbato era di quella […] e poi si lascino anco così aperti li balconi, per dieci, ò dodici giorni». Coloro i quali erano venuti a contatto con gli infettati andavano «spogliati di tutti quei panni che già avevano quando praticavano con gli ammorbatti, e vestirli di nuovi, overo d’altri, che alieni siano d’ogni infettione, con lavarli prima tutta la persona, e massime la faccia, le mani, li polsi, il collo, sotto le braccia, e le anguinaglie, con acqua rosata, e poco d’aceto». Per evitare che un organismo sano venga aggredito dall’agente patogeno, sarà opportuno procedere «riducendo i corpi a ottima temperanza, e essiccando quelli, che troppo humidi sono, con purgationi e salassi […] subito si doveranno evacuare primieramente con qualche medicina piacevole, e leniente, come il Fiore di cassia con polpa di Tamarindi. Poi nel dimani col salasso fatto tanto quanto la natura del paziente, la virtù, l’età, la consuetudine, l’aere, ò tempo dell’anno, e il male ricerca […] Ma se ò per età, ò per altre cause il salasso non convenisse, all’hora si appliceranno le ventose tagliate alle spalle, e quattro dita disopra ai ginocchi, e anco al fine delle gambe sopra la cavicchia delli piedi, e delle mani per divertire dalle parti interne, alle esterne, e lontane. Nel terzo giorno poi, e spesse volte anco doveranno pigliare per bocca quattro hore innanzi disinare una dramma di ottima Theriaca, ò dui dramme di Mitridato, overamente altro tanto di ottimo Bolo Armeno orientale […] Poi passato che sarà il terzo giorno doveranno anco pigliare per bocca ogni mattina nell’alba per siroppo qualche decottione nel brodo, fatta di Borragine, di Buglossa, d’Acetosa, di cinquefoglie, di scabiosa, di Chicoreo, di Indivia, di Pimpinella, di scordio, e altre cose simili con dui Cuchiari di siroppo si succo di acetosa, e dui altri d’acetosità di Cedro». Accertato il contagio il paziente dovrà al più presto venire trasferito nel luogo deputato al ricovero e alla cura dei malati, il lazzaretto – che a Udine venne istituito nel 1445  e per oltre due secoli fu ospitato presso un edificio adiacente alla chiesa di San Gottardo – ove i pazienti erano «da molti soldati giorno, e notte con somma diligentia guardati e custoditi […] Oltre di ciò fu anche e santamente […] provisto à quelli miserabili d’ogni sua necessità, cioè sia del vivere suo regolato e buono, come del Medico del corpo, e dell’anima ancora; accioche se il corpo non fosse abile per le medicine a ricupereare la sanitade, che almeno l’anima mediante la ministrazione delli Santissimi Sacramenti potesse ricevere perdono e salute eterna […] Era come ho detto fatta buona e diligente guardia alli Lazzaretti, accioche le robbe delli abitanti ammorbate, non fossero rubbate, ne con altra fraude trafugate, per dispensarle nella città». Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il lazzaretto era poco più di un semplice tetto sotto il quale i malati andavano a morire, magari confortati dalla carità di un prete o di un frate, piuttosto che un luogo di cura: le terapie mediche quando non erano assenti risultavano del tutto inefficaci, talvolta persino inutilmente cruente: i manuali di medicina del tempo, infatti, prescrivevano autentici supplizi come salassi, incisioni, amputazioni, impiastri a base di sterco di piccione, effluvi di erbe medicamentose, sciroppi a base di estratti di polvere corno di cervo, siero di vipera, coda di scorpione, suffimugi di vapori di mercurio, ecc. Anche le cure di Daciano – nonostante nel 1572 pare avesse creato un  miracoloso farmaco composto da una quarantina di ingredienti, il quale salvò Udine ed i suoi abitanti dal contagio, prodigio che gli valse l’appellativo di «liberatore della Città dopo Dio» – non si discostavano troppo da questo cruento clichè: è tuttavia necessario ricordare che, malgrado l’affannarsi dei medici più solerti, le percentuali di morte dei contagiati rimanevano altissime: nel caso della peste bubbonica il tasso di mortalità sfiorava l’80%; l’esito infausto della peste polmonare, ancor più virulenta e contagiosa della precedente, raggiungeva la totalità dei casi. Secondo Daciano i «segni, overo gli accidenti di quelli che già sono appestati […] non uno ma molti insieme debbono essere, come saria a dire la Febbre continua, e maligna col calore remesso, e quieto nelle parti esterne, mal’interne ardentissime, e continua inquietudine, per essere l’humiditadi del cuore corrotte, e putrefatte onde poi nasce la debolezza, e prostrazione di virtù grande. La faccia livida, cioè di colore di piombo, gli occhi rossi e torbidi. La doglia di testa immensa per li vapori maligni, che dalla prava materia febbrile si levano, e vanno al capo, nel quale poi si causa una mala complessione, e composizione, che spesse volte punge le pelicule del cervello, che genera il dolore immenso alla testa […] Altri accidenti sogliono avenire a gli appesati […] che putrefacendosi le humiditadi del cuore, e quelle poi spirando sempre pravi vapori allo stomaco, e alla boccha, causano destruttione d’appetito, nausea, e vomito spesso. Onde fanno amaritudine grande di boccha, e sete ardentissima, aridità di lingua, e il colore di quella alcuna volta nera, e aspra, e alle volte quasi azzurra […] Ma il segno più certo dell’huomo ammorbato, anzi certissimo, e infallibile fra tutti gli altri descritti, sarà quando che haverà la febbre continua, e maligna accompagnata con pravi, e pestiferi accidenti, e specialmente con Aposteme senza anco alcuno rosore, ò sia dietro le orecchie, ò sotto le braccia, ò nell’anguinaia, overo con carboni neri, e piani in qualsivoglia parte del corpo di maligna qualità, ò con Petecchie pavonazze, e nere, dimostratesi nel principio del male, cioè nelli primi tre giorni di quello». I malati, nonostante questi sintomi terribili, che sicuramente non stimolavano l’appetito, erano comunque tenuti a seguire un preciso regime alimentare: «i cibi dovranno essere di bonissima sostanza e facili da digerire, come sono le pollastre, capponi, faggiani, carne di capretto, tordi, e uccelletti conditi sempre in saporetti acetosi, fatti ò con aceto, ò con  succo di naranzi di mezzo sapore, cotti però più tosto lesse, che roste […] per ripararli dalla sete gli naranzi di mezzo sapore, i pomi o damasceni, e li veradazzi sono ottimi da tenerli in bocca, succiando a poco a poco».Essi, inoltre, dovranno rimanere «più possibile sopra letto molle con monde, e odorifere lenzuola», le membra surriscaldate dalla febbre andranno refrigerate con «cose tali, c’habbino virtù d’infirgidare, e essiccare […] mezza dramma per volta di Trocissi di Canfora, con dui cucchiai d’acqua rosata, overo d’acetosa,e di borragine, e similmente il bolo Armenio Orienale disolto con quattro cuchiari di brodo alterato d’acetosa, e di borragine, e di scordio, e di fiori cordiali, pigliando nel principio del disinare ogni giorno». Alcuni tra i rimedi più praticati nella cura dei pazienti erano senza dubbio il famigerato salasso (ampiamente utilizzato, a scopi terapeutici, fino alle soglie del XX secolo) e, ricorrendo ad un’espressione utilizzata dallo stesso Daciano, il «modo Chirurgicale».Quest’ ultima pratica, piuttosto cruenta, consisteva nell’«applicare subito sopra la giandussa una larga ventosa primieramente asciuta, e poi benissimo scaricarla, estahendo quanto si può il velenoso humore ivi rinchiuso, ungendola poi […] con la Theriaca e oglio rosato molto bene […] Ma se per sorte la natura si rendesse difficile con gli impiastri maturativi à digerire, all’hora si doverà con la lancetta overo Gamautto quanto prima aprirle, e darle un taglio condencente al tumore, e per evacuare più facilmente il velenoso humore ivi adunato. Ma per liberare il misero appestato presto, e da dovero, doverassi subito, che si sentirà ammorbato applicare alcuni vescicatorij in diverse parti del corpo, per evacuare, e divertere i velenosi humori dal cuore» Il salasso, «molto salutifero sarà loro, perciochè molto prohibisce, e smorza il bollore de maligni humori, va applicato secondo dei criteri variabili, poiché «la quantità del sangue, che deve esser estratta in simili mali, essendo i soggetti molti, le complessioni diverse, e le virtù, e etadi loro varie è impossibil cosa è determinatamente descriverla […] Ma nel cavare detto sangue bisogna anco notare se quello sarà buono, ò nò; perché essendo buono, non  si dovera cavarlo ma si bene si doverà riserbarlo per tesero della vita loro, e moderatore de i pravi humori. Ma se estraendo si vederà il sangue esser molto  corrotto, e di mala qualitade, all’hora se ne doverà cavare quella quantità, che parerà al saldo giudicio del perito medico […] il quale nondimeno dovera essere più tosto parco che abondante». Per i casi di peste polmonare, provocata dai «carboni pestiferi overo antraci la curatione consiste in tre cose principali. La prima subito a principio comincerà dalla settione della vena, la quale doverà esser sempre fatta secondo la drittura del carbone, cioè cavare tanto sangue dalla parte istessa del male, che la virtù del patiente possa facilmente comportare. La seconda cosa sarà il scarificarlo assai profondamente, e poscia applicarli una ventosa, con la quale estrarssi più sangue, che si potrà; e poi subito medicarassi con succo di piantagine, e sale, acciò il sangue nelle cicatrici non si coaguli. La terza intentione si eseguirà, reprimendo con gagliardi medicamenti, che digerire e disperdere i pravi humori ivi raggrumati. Ma è da notare, che alla curatione di questi pestiferi carboni non ce rimedio più singulare, ne più perfetto, e securo, che subito, che subito all’apparitione d’essi applicarsi lo cauterio attuale, cioè lo ferro ben affocato, e con quello estinguerli […] poscia essendo quelli pieni di corruzione maligna, si doveranno anchora modificare, applicandoli lo unguento chiamato Egitpiaco, overo l’Ifis, e se per la molta malignità ivi concorsa, questi tali medicamenti non facessero profitto, all’hora sarà bisogno forsi venire a cose più galiarde, overo l’aristolochia cotta nell’aceto, e trita poscia, e applicata, lo vitriolo brusciato, l’arsenico, ò la sandaracchia».
Nonostante al giorno d’oggi le sue cure possano sembrare a volte cruente, a volte pittoresche, sicuramente dalla dubbia efficacia, ciò che colpisce maggiormente del profilo umano e professionale di Giuseppe Daciano sono il grande scrupolo e l’esemplare dedizione con le quali egli svolse la sua missione di medico, capovolgendo l’immagine allora dominante del luminare, dell’accademico – figura ben rappresenata da Don Ferrante, il buffo e pedante erudito di manzoniana memoria ­– che, quasi allo stesso modo di un filosofo, dispensava la sua scienza ex-cathedra nelle aule universitarie, per diventare un medico vero e proprio che “agisce sul campo”, che dedica la sua vita alla cura dei malati di ogni ceto e condizione, esponendosi, come abbiamo visto, a rischi di ogni sorta, anticipando di qualche secolo la familiare e romantica figura del medico condotto (che farà la sua comparsa soltanto alla fine del XVIII secolo), il quale attraversava instancabilmente le campagne e le città per portare nelle case – spesso quelle dei più poveri – cura e sollievo. Un altro aspetto innovativo che egli fece proprio fu l’osservazione del fenomeno patologico inteso come momento fondante dal quale prendere le mosse per l’elaborazione delle diagnosi e delle terapie mediche: ciò non è altro che l’affermazione del metodo sperimentale basato sull’esperienza. Daciano, con questa prassi, mise in discussione il ‘principio d’autorità’ – costituito dal complesso delle teorie e degli assunti degli antichi filosofi, spesso mediati ed interpretati, non sempre correttamente, dalle autorità religiose – dal quale la scienza traeva la sua forza ed il suo prestigio, accogliendo il metodo d’indagine che molti scienziati, a partire da Galileo, fecero propri nel corso del Seicento.

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