martedì 17 dicembre 2013

Il blitz di Pola


Le corazzate austro-ungariche nel porto di Pola
Imbaldanzita dall'affondamento della corazzata Szent Istvan (10 giugno 1918) la Regia Marina pianificò un'azione ancora più clamorosa: colpire la marina austro-ungarica all'interno della sua base, il munitissimo porto di Pola. L'azione, lungamente preparata, si svolse la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918. La guerra stava per concludersi e l'esercito austriaco era ormai sconfitto, ma la Marina voleva terminare le operazioni con un' ultima brillante impresa. Agli alti comandi italiani forse non era ignoto il fatto che a Pola la situazione si faceva sempre più difficile: i marinai provenienti dai diversi territori del morente impero (cechi, ungheresi, sloveni, croati, ma soprattutto istriani e dalmati) non volevano più combattere e davano segni di una crescente insofferenza a stento contenuta dagli ufficiali che, per mantenere l'ordine, spesso consegnavano gli equipaggi sulle navi. Ad ogni modo, la missione fu affidata a due ufficiali del genio navale: Raffaele Paolucci e Raffaele Rossetti. Paolucci e Rossetti riuscirono a penetrare nel porto di Pola a cavalcioni di una mignatta, una sorta si siluro a motore dotato di cariche esplosive. Aiutati dalle tenebre raggiunsero la corazzata Viribus Unitis ("Viribus Unitis!" era il grido di battaglia della marina austro-ungarica) e applicarono le cariche esplosive magnetiche sotto la linea di galleggiamento della murata. Mentre stavano per allontanarsi, furono illuminati dal fascio di un proiettore elettrico. Presi prigionieri, vennero portati a bordo proprio della Viribus Unitis. Trascorsa qualche ora chiesero di parlare con il capitano e gli dissero che la nave era minata e che provvedesse a mettere in salvo l'equipaggio. Resosi conto che non c'era più nulla da fare, il comandante ordinò l'abbandono della nave. L'ora prevista per l'esplosione passò senza che nulla accadesse. Il capitano, credendo che gli italiani l'avessero ingannato, ordinò il rientro a bordo. Un'atroce fatalità volle che le cariche esplodessero proprio quando l'equipaggio aveva fatto ritorno sulla Viribus Unitis. Lo scafo fu squarciato dalle detonazioni che raggiunsero anche il deposito delle munizioni. Colpita, la nave si piegò su un fianco per poi affondare. Nella tragedia morirono 400 marinai, compreso il comandante.

giovedì 12 dicembre 2013

L'impresa di Premuda


La Szent Istvan mentre affonda
La notte tra il 9 e 10 giugno 1918 parte dell'imperial-regia flotta da guerra austro-ungarica uscì dal porto di Pola con l'intenzione di ingaggiare battaglia con la squadra italiana nel basso adriatico. Fino a quel momento le grandi navi da guerra erano rimaste ancorate nei rispettivi porti (Pola e Taranto), lasciando il campo a naviglio di più piccole dimensioni (incrociatori leggeri e torpediniere) che meglio si adattava ad un mare stretto e poco profondo come l'Adriatico. La squadra austriaca era guidata da due moderne e potenti corazzate, la Tegetthoff (in omaggio all'ammiraglio che sconfisse gli italiani a Lissa nel 1866) e la Szent Istvan (Santo Stefano), scortate da più di una ventina di navi di minore tonnellaggio. Intorno alle 3:15 del 10 giugno due Mas italiani (motoscafi d'altura armati con una coppia di siluri) guidati dal capitano di corvetta Luigi Rizzo, incrociarono le navi austriache nei pressi di Premuda, isola situata nei dintorni della città dalmata di Zara. L'attenzione di Rizzo fu attirata da dense volute di fumo nero che si stagliavano all'orizzonte: le corazzate, infatti, stavano procedendo con i motori al massimo e le caldaie, continuamente alimentate dai fuochisti, bruciavano grandi quantità di carbone. Protetti dalle ultime tenebre, i Mas si diressero verso il nemico: le veloci imbarcazioni riuscirono a penetrare le maglie delle navi di scorta, giungendo a tiro delle corazzate. Rizzo puntò sulla Szent Istvan, mentre il secondo Mas guidato dal guardiamarina Aonzo si diresse contro la Tegetthoff. La Szent Istvan fu colpita in pieno da due siluri, quelli lanciati contro la Tegetthoff, invece, non andarono a segno. Rabbiosa fu la reazione delle navi di scorta, ma i due motoscafi, grazie alla loro velocità, riuscirono a sganciarsi e a far ritorno ad Ancona donde erano partiti. I Mas rientrarono in porto issando la "bandiera grande" (un tricolore di grandi dimensioni) per segnalare il felice esito della missione. Per tutta risposta il naviglio all'ancora in porto li salutò con fischi e sirene. Intanto la Szent Istvan, colpita a morte e ormai ingovernabile (uno dei siluri aveva praticamente distrutto la sala macchine), iniziò ad imbarcare acqua e ad inclinarsi su un fianco. La nave affondò alle ore 6:00 del mattino, portando con sé 80 dei 1000 uomini componenti l'equipaggio. Le drammatiche fasi dell'affondamento furono filmate con una cinepresa da un operatore che si trovava sulla corazzata gemella Tegetthoff. Quella di Premuda fu, probabilmente, la più brillante operazione della Marina Militare Italiana (allora denominata Regia Marina) che celebra la propria festa il 10 giugno in ricordo di quell'audace impresa.

martedì 3 dicembre 2013

Lo Spielberg

Lo Spielberg è una famigerata fortezza che sorge nei pressi della città di Brno, nell'attuale Repubblica Ceca. Edificata a partire dal XII secolo, conobbe vari utilizzi (castello, caserma, ecc...), finché l'imperatore d'Austria Giuseppe II d'Asburgo (famoso per le sue riforme ispirate ai principi dell'Illuminismo!), nel 1783, la trasformò in un carcere di massima sicurezza. Nel corso dell'Ottocento, lo Spielberg accrebbe la sua sinistra fama, poiché diventò il luogo di reclusione di tutti i prigionieri politici che lottavano per l'indipendenza delle loro nazioni, sottomesse all'Impero d'Austria. Tra loro ci furono anche molti patrioti italiani del Risorgimento: si pensi soltanto a Pietro Maroncelli e a Silvio Pellico che ripercorrerà la sua dolorosa vicenda nell'opera Le mie prigioni. I reclusi, spesso ammalatisi a causa dell'insalubrità del luogo, scontavano un vero e proprio supplizio: languivano con i piedi incatenati alle pareti dei cubicoli; non potevano parlare tra loro; non ricevevano posta né potevano avere visite o generi di conforto. Le loro durissime condizioni suscitarono ondate di protesta in gran parte d'Europa, tanto da spingere, nel 1855, l'imperatore Francesco Giuseppe a chiudere il complesso carcerario e a riconvertirlo in caserma.

giovedì 28 novembre 2013

La crociata degli straccioni


La cosiddetta "crociata degli straccioni" fu la prima di una lunga serie di spedizioni militari che avevano lo scopo di strappare la Terrasanta e Gerusalemme
agli "infedeli" e di restituirle alla cristianità. Fu indetta nel 1095, al grido di "Deus le volt!" ("Dio lo vuole!"), ed ebbe come guide il predicatore Pietro l'Eremita e il nobile francese Gualtieri Senza Averi, così chiamato perché, essendo figlio cadetto, non avrebbe ereditato il feudo paterno. I componenti della spedizione erano perlopiù di umili origini: contadini, piccoli artigiani, disoccupati, sbandati. Grazie alla propria abilità oratoria e con la promessa della totale remissione dei peccati, Pietro riuscì a raccogliere più di 80 mila seguaci. Quest'orda, esaltata dalle prediche dell'eremita, partendo dalla Francia settentrionale, attraversò l'Europa e si diresse in oriente seminando morte e distruzione. I crociati assaltarono alcune città tedesche e massacrarono a migliaia gli ebrei ivi residenti (gli ebrei, infatti, erano considerati responsabili della morte di Gesù Cristo); giunti nella città ungherese di Semlin la saccheggiarono, uccidendo circa 4000 persone; grandi danni fecero anche a Belgrado, dove la popolazione, avvertita in tempo, riuscì a scampare alla loro furia. Preoccupati dalle notizie sempre più gravi, i bizantini mandarono loro incontro un esercito per disperderli. Lo scontro armato che seguì causò la morte di 20 mila crociati. Duramente provati i superstiti riuscirono a raggiungere l'Asia Minore, ma furono definitivamente sbaragliati dai Turchi non lontano da Nicea.

lunedì 25 novembre 2013

La carica dei seicento


"La carica dei seicento" è il titolo di un famoso film americano degli anni Trenta, basato su un reale fatto storico: la carica della cavalleria leggera inglese durante la Guerra di Crimea. Quest' episodio, più noto come la "carica della Balaklava" (dal nome dell'omonima località della penisola di Crimea), avvenne il 25 ottobre 1854: Lord Raglan, comandante del contingente inglese, ordinò ad un reparto di cavalleria leggera ("light cavalry") di conquistare una postazione di artiglieria russa. L'attaccò ebbe inizio con i canonici squilli di tromba. I cavalieri, sciabola sguainata e lancia in resta, si avvicinarono al nemico con il solito ordine di battaglia: passo, trotto, galoppo. I russi guardavano sbigottiti il nemico che si avvicinava, armato di un coraggio sconfinante nella follia. Appena gli inglesi giunsero alla portata dei cannoni, i russi iniziarono un micidiale fuoco di sbarramento che causò una carneficina tra gli attaccanti: centinaia di uomini e cavalli rimasero sul terreno. Nonostante ciò i superstiti raggiunsero i cannoni e, dopo furiosi combattimenti all'arma bianca, riuscirono a cacciare i russi dalla posizione. La vittoria ebbe un grande valore morale e propagandistico, ma non fu risolutiva per gli esiti del conflitto. Nei decenni successivi, inoltre, il progresso delle armi (mitragliatrici, filo spinato, ecc...) e delle strategie militari dimostrerà l'inefficacia degli assalti condotti a cavallo.

domenica 24 novembre 2013

Il calendario della Rivoluzione francese

Il governo rivoluzionario, intendendo attuare una radicale laicizzazione della società, promosse la realizzazione di un nuovo strumento per contare i giorni, in sostituzione di quello fino ad allora in uso, ossia il calendario gregoriano che prese il nome da papa Gregorio XIII, il quale lo istituì nel 1582. Profondi furono i cambiamenti che riguardarono il nome dei giorni e dei mesi, spesso legati alla tradizione romana o alla figura e al culto dei santi. I mesi, poi, non furono più suddivisi in quattro settimane, bensì in tre decadi per un totale di trenta giorni. L'anno così organizzato aveva complessivamente 360 giorni; 365 o 366 erano i giorni degli anni bisestili. L'inizio dell'anno veniva fatto cadere non più il primo gennaio, ma in una data che per noi corrisponde al 22 o 23 settembre. Il calendario rivoluzionario (o repubblicano) rimase in vigore dal 24 novembre 1793 al 1 gennaio 1806, quando, per volontà di Napoleone, fu reintrodotto il calendario gregoriano.
Il calendario era così strutturato:
Autunno:
Vendemmiaio (22 settembre - 21 ottobre)
Brumaio (22 ottobre - 20 novembre)
Firmaio (21 novembre - 20 dicembre)
Inverno:
Nevoso (21 dicembre - 19 gennaio)
Piovoso (20 gennaio - 18 febbraio)
Ventoso (19 febbraio - 20 marzo)
Primavera:
Germinale (21 marzo - 19 aprile)
Fiorile (20 aprile - 19 maggio)
Pratile (20 maggio - 18 giugno)
Estate:
Messidoro (19 giugno - 18 luglio)
Termidoro (19 luglio -18 agosto)
Fruttidoro (19 agosto - 16 settembre)

I giorni dal 17 al 21 settembre erano detti sanculottidi in omaggio ai "sanculotti", i sostenitori più estremisti del governo rivoluzionario.

Riccardo Di Giusto, il primo caduto italiano della Grande Guerra


Il friulano Riccardo Di Giusto (a Udine una via è intitolata alla sua memoria) fu
Stele in memoria di
Riccardo Di Giusto
il primo dei 650.000 caduti italiani della Grande Guerra. Inquadrato nel Battaglione Alpini Cividale, alle del 2 mattino del 24 maggio 1915 (la dichiarazione di guerra consegnata dal governo italiano a quello austro-ungarico fissava l'inizio delle ostilità per la mezzanotte del 24) si mosse insieme ai suoi commilitoni alla conquista del Monte Natrpriciar, oggi in territorio sloveno. Le guardie di frontiera austriache, già in allerta, aprirono il fuoco sugli italiani. Così, appena ventenne, morì l'alpino Di Giusto che, proprio per questo motivo, fu anche il primo soldato italiano ad essere insignito della Medaglia d'oro al Valor Militare.

"Parigi val bene una messa"


Questa frase fu attribuita a Enrico IV di Borbone, re di Francia dal 1589 al 1610, che salì al trono dopo una sanguinosa guerra civile (la cosiddetta "guerra dei tre enrichi"). Di religione ugonotta (in Francia i protestanti venivano appunto chiamati ugonotti) si convertì al cattolicesimo, requisito irrinunciabile, fin dai tempi di Carlo Magno, per poter diventare sovrano di Francia. Morì accoltellato, il 10 maggio 1610, mentre stava facendo ritorno in carrozza al Palazzo del Louvre, per mano di un cattolico fanatico, François Ravaillac. Il regicida, a stento sottratto al linciaggio, fu immediatamente imprigionato e processato. Condannato alla pena capitale, fu giustiziato per squartamento il 27 maggio di quell'anno. Si racconta che "prima di venir smembrato, venne scottato con piombo fuso, olio e resina bollenti. Le carni vennero strappate con le tenaglie".

giovedì 21 novembre 2013

Cinquant'anni fa a Dallas

Così, mezzo secolo fa, il telegiornale della sera diede la notizia della morte di JFK. 

mercoledì 20 novembre 2013

"Cuius regio eius religio"


Espressione in lingua latina che letteralmente significa "di chi è la regione, di lui si segua la religione". Questa frase (non si sa se sia stata mai effettivamente pronunciata) è legata alla Pace di Augusta stipulata, nel 1555, nell'omonima città della Germania, tra Carlo V e i principi elettori tedeschi. L'obiettivo di questo accordo era di porre fine alle sanguinose guerre di religione che insanguinavano l'area germanica dagli anni trenta del Cinquecento, in seguito alla diffusione del protestantesimo. Il principio dell'accordo era semplice: la popolazione doveva adattarsi alla religione del proprio sovrano, fosse egli cattolico o protestante.

La balestra


Arma antichissima, secondo alcuni documenti risalente all'epoca antica (sarebbe stata inventata dai greci, ma anche i cinesi ne rivendicano l'invenzione), ebbe grande diffusione nel medioevo e nella prima età moderna, quando fu gradualmente sostituita dalle prime armi da fuoco. Di struttura più massiccia e di dimensioni più ridotte rispetto all'arco lungo, a differenza di quest'ultimo aveva una gittata e una forza di penetrazione maggiori che le consentivano di perforare abbastanza agevolmente corazze e cotte di maglia. I proietti che lanciava erano detti quadrelle o dardi ed avevano un peso ed una forza d'impatto superiori alle normali frecce. Quest'arma non godette mai di una buona fama: i cavalieri la reputavano uno strumento da vili e da briganti. Anche la Chiesa la osteggiò: nel 1136 Innocenzo II con una bolla nei proibì l'uso negli scontri che opponevano eserciti cristiani, mentre fu regolarmente impiegata nelle guerre contro gli "infedeli" (musulmani).

Giuseppe Daciano: un fondamentale contributo alla medicina moderna


Secondo lo storico Giuseppe Liruti «nacque nella nobile terra di Tolmezzo capitale di Tutta la Carnia nostra montuosa»; mentre Fabio Quintiliano Ermacora, storico tolmezzino vissuto nel XVI secolo, nel suo De antiquitatibus Carneae, data la sua nascita intorno all’anno 1500. Sempre secondo il Liruti si laureò in medicina a Padova, in seguito tornò a Tolmezzo per esercitare la professione, finché non fu chiamato a Udine per ricoprire l'incarico di «Dottor fisico cittadino». Nel 1575 diede alle stampe Trattato delle Peste et delle Petecchie, nel quale analizza le cause delle differenti tipologie di peste e propone diverse e per l'epoca innovative terapie, anticipando di quasi un secolo il metodo scientifico che si affermerà a partire dalla metà del XVII secolo.  La sua data di morte non è certa ma, con ragionevole sicurezza, la si può far risalire al 1576: pare sia rimasto vittima di un'epidemia scoppiata nell’estate di quell'anno, mentre si prodigava per arginare la diffusione del morbo.
Insolito e per questo degno d’interesse è il fatto che Daciano scelse di scrivere la sua opera in volgare, particolare che gli procurò non poche critiche presso gli ambienti accademici dell’epoca. 
Ai detrattori che gli rimproveravano di aver abbandonato il latino, egli risponde che la sua scelta è ricaduta sul volgare «per brama di giovare a molti (benché) sappia l’uomo essere di natura fragile, e caduca si fattamente, che non trovi rimedio alcuno contra la morte […] nondimeno con la cura, e buon governo suo, e de Medici intendenti può ben reggere, e sostentare in vita se stesso; e schernendosi da gli artigli della morte empia, e violenta, tanto oltre da condurre gli anni suoi, quanto le forze ne l’huomo infuse, e regolate dal divin consiglio nel comportano». Nel primo capitolo della sua opera il medico tolmezzino – citando ripetutamente Platone, Aristotele, Ippocrate, Galeno, Avicenna, considerati all’epoca le massime autorità in campo medico –  descrive le differenti tipologie e sintomi della Peste, la quale può manifestarsi attraverso «le petecchie […] certe macchie ò nere, ò pavonazze grandi come lenticchie, le quali con febbre maligna appareno nella superficie de i corpi à tempo di morbo nelli primi tre giorni […] Le postreme overo Buboni pestiferi […] sono certi tumori, overo enfiature, le quali con grave e pestilente febbre contagio fa in tempo di peste sogliono nelli emontorij, cioè nelli lochi giandulosi come è dietro l’orecchie, sotto le braccia, e nell’anguinaglia con immenso dolore apparisce […] Li carboni poi, overo antraci sono la terza specie della Peste, li quali indifferentemente nascono per tutto il corpo con febbre maligna, e pestilente, e sono di più qualitadi, cioè alcuni piani, e negri, altri veramente rilevati, e bianchi, à modo di vesciche, ò pustole fatte, ò provenute per scottatura di fuoco, e questi sono anco secondo però la sua maggiore, ò minore adustione, più e meno maligni, e mortali».
Ma quali sono le invisibili cause che scatenano queste terribili calamità? Per il nostro medico sono essenzialmente due: «L’aere veramente putrido e maligno che si fa, secondo alcuni, per via di certe maligne costellazioni, e pessimi influssi, come sarebbe à dire la congiuntione di Marte con Saturno, e per l’Eclisse Lunare, e per altri, simili pessimi influssi, ò per via di moltitudine di corpi morti non sepoltj, ò per via di lacune, e cloache fetide, dalle quali nell’estremo caldo certi vapori pessimi sogliono dalli venti in aria levarsi […] L’altra causa per la quale si può generare la Peste è […] la corruttione de gli humori interni, li quali per il mal, e irregolato modo di vivere si generano così negli uomini ricchi per la varietà, e repletione de’cibi, come anco nelli poveri per lo dissagio, e pessimo nodrimento di quelli». È altresì possibile che la diffusione contagio possa essere condizionata anche da fattori ambientali, legati all’avvicendarsi del ciclo delle stagioni: «Si come li quattro tempi dell’anno sono di natura tra loro molto differenti così anco sono quelli più, e meno inchinati, e pronti alla pestilenza. Ma quanto maggiormente le mutazioni sono grandi, e ineguali tanto più partoriscono grandissimi e pernitiosi mali […] ogni volta, che la temperatura delle sue stagioni sarà dal natural abito suo alla calidità, e humidità troppo smisuratamente mutata […] grandemente fomenta la putrefattione, e corrutione degli humori interni, e però sempre nel novilunio, e nella volta della luna più facilmente si scopre la Peste, che nell’altro tempo onde si vede anco che la primavera la quale è di natura sua temperata e salutifera […] ogni volta, che essa eccederà da questo suo proprio, e natural temperamento, e che si faccia oltre modo pluviosa […] dico che facilmente nella primavera si genereranno febbri pestilenziali, e perniciose, e conseguentemente la peste […] Et sopravvenendo poi l’estate, la quale non ha di sua natura humido molto, ma caldo, e secco assai è atta a ricevere la Peste: percioché il caldo immoderato è padre e causa principale della putrefattione, e susseguentemente della Peste. Ma avvicinandosi poi l’autunno di novo piglia vigore, e forza maggiore  […] per cagione delle molte mutazioni, e in qualità della constitution sua, la quale hora è calda, e hora fredda,  hora di pioggia, e hora di sereno  […] Et però l’autunno essendo di natura sua iniquo alla natura humana, dispone li corpi, e prepara gli humori à corrompersi, e putrefarsi più in questo tempo». Daciano, proseguendo con suoi arditi ma non sempre infondati ragionamenti, individua una sorta di legame tra le «etadi» (l’età anagrafica e biologica dei pazienti) e la temperatura corporea, la quale, se elevata, rientra tra i sintomi più inequivocabili della peste: «la prima adunque temperatura che più disposta à questa pessima influentia è la sanguigna, per essere calda e humida, la secondo è la Colerica, qual è calda, e secca, la terza è la Flematica per esser fredda e humida, la quarta e ultima, overo la men disposta, è la Malinconica, essendo fredda e secca. Il simile diremo delle etadi, le quali essendo proporzionate alle temperature, e alli quattro tempi dell’anno sono parimente tutte chi più, chi meno sottoposte alla Peste. La prima età adunque, overo la più disposta ad appestarsi è la infantia, la quale contenendo in sé la puerizia ha principio dal nascimento, e dura fino alli anni quattordici, e questa età per essere calda e humida, e più delle altre insaziabile, e dedita al sonno è anco più facile, e meno renitente à ricevere morbi contagiosi […] la seconda età cioè la manco disposta della prima ad appestarsi si è la pubertà, la quale è calda e secca, e contiene in sé l’adolescentia e la gioventù. La pubertà […] ha principio da gli anni 14 e dura fino alli 25. Et la gioventù poi, la qual è chiamata anco età florida principia da gli anni 25 e perdura fino alli 35 e questa età per darsi disonestamente alla lussuria, e al vivere irregolato facilmente anco è disposta à ricevere questi morbi contagiosi, e mortali. La terza età è dalli Dottori chiamata virilità, overo età di consistentia, la quale per esser di sua natura fredda, e humida, è anco men parata alli suddetti contagiosi mali, e principia dal anno 35 e finisse al 49. La quarta e ultima età è la vecchiezza, la quale si divide in tre parti. La prima incomincia da gli anni 50 e dura fino alli 60 […] la seconda comincia da gli anni 60 e finisce alli 70 e la terza dalli 70 e dura infino all’ultimo della vita […] Ma questa quarta età, se bene universalmente più participa del freddo, e secco, che le altre tre suddette, nondimeno essendo ella troppo otiosa è ancora alle volte abondevole d’humori escrementosi, perciò affatto non è libera, ne sicura in tutto, si dee tenere, di non esser atta à potersi appestare. Perilchè nessuno si fidi d’andare, e praticare intrinsecamente, con appestati, con speranza di non ammorbarsi […] perché ne complessione alcuna, ne alcuna età è certa a non potersi praticando con ammorbati infettare». Tuttavia, secondo Daciano, la peste “udinese” è anomala poiché essa non è generata «dagli elementi e primo non dal fuoco […] che tutti gli elementi si putrefanno, ecceto il fuoco […] Non dall’aere, perché […] l’aere non si corrompe, né putrefare si può […] Non è provenuta da constitutione calda, e humida, perché essendo quella stata universale, non dico solo al circuito di Udine; ma almeno à tutt’il Friuli, seguirà che anco tutto quello fusse stato per tal intemperie ammorbato. Non è meno generata da guerre, per le quali morendo in grandissimo numero, e restando corpi nel sangue immersi, e insepolti li vapori fetidi che da quelli sariano, mediante li venti e raggi del Sole, in aria elevati, facilmente hariano putrefatto e corrotto l’ambiente circonvicino […] Non dalle acque, percioche tali ò sono correnti o stagne. Non dalle correnti, perché il moto è contrario alla putrefattione […] Meno anco da acque stagne […] per esserne poca copia così nella Città, come anco nelle fosse di quella, e li luoghi circonvicini». La vera causa dell’epidemia è da imputare, invece, ai «perfidi e maledetti Hebrei con le robbe loro ammorbate, e rubbate in Capodistria ne fù  portata alle feste della loro Pasqua, che fu alli 26 Marzo MDLVI. Contra liquali se bene rigorosa giustitia  non è stato usata, come giustamente meritavano, pigliando esempio del ETTERNO DIO, il quale per la loro incredulità, e perfidia gli ha distrutto il suo regno, e banditi dalla GLORIA DEL CIELO; pur sono stati per si grande e incredibil danno della nostra Magnifica città di Udine per universal consenso dal Magnifico consiglio di quella banditi, e mandati in esilio con la perversa discendenza loro […] La onde essendo una di queste ebree di parto morta, senza che fusse stata altrimenti visitata da medici, e indi poi à pochi giorni  in  e due di quelle bestie, e figlioli della morta, la Peste hebbe in Udine principio nella contrada chiamata il borgo del Fieno, in una casa sopra la quale per segno è scritto questa parola, MEMINI, nella quale dicesi altra volta che fù questa pessima influentia dell’anno della Natività del NOSTRO SIGNORE 1511 havere incominciato anco la Peste, per la quale morirono à migliaia di persone: onde non senza causa fu scritto con lettere Maiuscole il sopra scritto Ricordo». Il forte e violento pregiudizio antisemita che emerge dalle parole di Daciano, era un sentimento molto diffuso in ampi strati della società del tempo e aveva lontane radici nel tempo: già durante la grande peste del 1348, infatti, in varie parti d’Europa le comunità ebraiche, ritenute responsabili del contagio, vennero ferocemente attaccate dalla popolazione.Al primo fondato sospetto di epidemia la principale preoccupazione di Daciano, «si come al Medico è di somma eccellenza antivedere, e pronosticare i morbi che alla giornata possono occorrere all’uomo», è quella di predisporre alcune misure atte a contenere la diffusione del contagio, perciò «prima e subitamente bisognerebbe ricorrere con cordiali orazioni, voti, e digiuni al Signor Dio clemetissimo Redentor nostro […] Oltre di ciò si doveria etiandio fare […] continui fuochi per tutta la Città accesi, e fatti con odoriferi legni, che vadano infino al cielo. Ma se tali fuochi così accesi per tutta la città paressero difficili, e impossibili à farsi, si potranno almeno fare nelle particolari case, e nelle stanze, ove più frequentemente s’harà d’abitare e pratticare». Se tali precauzioni non dovessero risultare sufficienti, allora è necessario «che si facesse Processione solenne nel secondo giorno delle Pentecoste […] Secondariamente […] che tutte le strade, e luoghi della Città fussero tenuti netti di letami, e da ogni fango e lordezza mondati. E sopra tutto li luoghi delle Beccarie, e pescarie […] A nessun modo è permesso, che robbe di bamabaso, di lino, di lana, di seta, ò piume, ò pelle, ò qual’altra sorte esser si voglia fussero portate à vendere per la Città […] con gravi pene prohibito il vendere, e comprare cose guaste, come vini versati, carne fetide, pesci puzzolenti, herbazzi, e legumi sobboliti e altre cose, che facilmente si corrompono, come sono fruttami, e specialmente ciliegie, cocomeri, e meloni […] Ma oltre di ciò anco per schifare in tutto la contagione, che da alcuni animali facilmente si potria pigliare, come sono li porci, li cani, e le gatte,è prohibito, con pena alli padroni loro, che non li lasciassero andar di giorno, ne di notte per la città vagando; pericoche questi animali sono atti a ricevere contagione pestifera». Le abitazioni dei malati dovevano essere necessariamente evacuate dalle «robbe infettate, come dalle lordezze, li balconi lassati aperti per 15 o 20 giorni, e notti di continuo, acciò l’aere d’ogni intorno potesse largamente entrare, e sgombrare quel maligno influsso», in seguito era necessario purificare le stanze con «fiori di Camamilla, di Rosmarino, scorza di Cedro, Cannella fina, legno Aloe, Sandali Citrini, Origani, Mentha, Melissa, ecc.», oppure «con trezze d’aglio, ò con scarpe vecchie, con pece, e zolfo […] et fatti che erano questi profumi, si aduna una quantità di calcina viva, più o meno però secondo il bisogno, e grandezza della casa, ch’era per bianchegiarse, e si imorzava nel luogo, ove più ammorbato era di quella […] e poi si lascino anco così aperti li balconi, per dieci, ò dodici giorni». Coloro i quali erano venuti a contatto con gli infettati andavano «spogliati di tutti quei panni che già avevano quando praticavano con gli ammorbatti, e vestirli di nuovi, overo d’altri, che alieni siano d’ogni infettione, con lavarli prima tutta la persona, e massime la faccia, le mani, li polsi, il collo, sotto le braccia, e le anguinaglie, con acqua rosata, e poco d’aceto». Per evitare che un organismo sano venga aggredito dall’agente patogeno, sarà opportuno procedere «riducendo i corpi a ottima temperanza, e essiccando quelli, che troppo humidi sono, con purgationi e salassi […] subito si doveranno evacuare primieramente con qualche medicina piacevole, e leniente, come il Fiore di cassia con polpa di Tamarindi. Poi nel dimani col salasso fatto tanto quanto la natura del paziente, la virtù, l’età, la consuetudine, l’aere, ò tempo dell’anno, e il male ricerca […] Ma se ò per età, ò per altre cause il salasso non convenisse, all’hora si appliceranno le ventose tagliate alle spalle, e quattro dita disopra ai ginocchi, e anco al fine delle gambe sopra la cavicchia delli piedi, e delle mani per divertire dalle parti interne, alle esterne, e lontane. Nel terzo giorno poi, e spesse volte anco doveranno pigliare per bocca quattro hore innanzi disinare una dramma di ottima Theriaca, ò dui dramme di Mitridato, overamente altro tanto di ottimo Bolo Armeno orientale […] Poi passato che sarà il terzo giorno doveranno anco pigliare per bocca ogni mattina nell’alba per siroppo qualche decottione nel brodo, fatta di Borragine, di Buglossa, d’Acetosa, di cinquefoglie, di scabiosa, di Chicoreo, di Indivia, di Pimpinella, di scordio, e altre cose simili con dui Cuchiari di siroppo si succo di acetosa, e dui altri d’acetosità di Cedro». Accertato il contagio il paziente dovrà al più presto venire trasferito nel luogo deputato al ricovero e alla cura dei malati, il lazzaretto – che a Udine venne istituito nel 1445  e per oltre due secoli fu ospitato presso un edificio adiacente alla chiesa di San Gottardo – ove i pazienti erano «da molti soldati giorno, e notte con somma diligentia guardati e custoditi […] Oltre di ciò fu anche e santamente […] provisto à quelli miserabili d’ogni sua necessità, cioè sia del vivere suo regolato e buono, come del Medico del corpo, e dell’anima ancora; accioche se il corpo non fosse abile per le medicine a ricupereare la sanitade, che almeno l’anima mediante la ministrazione delli Santissimi Sacramenti potesse ricevere perdono e salute eterna […] Era come ho detto fatta buona e diligente guardia alli Lazzaretti, accioche le robbe delli abitanti ammorbate, non fossero rubbate, ne con altra fraude trafugate, per dispensarle nella città». Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il lazzaretto era poco più di un semplice tetto sotto il quale i malati andavano a morire, magari confortati dalla carità di un prete o di un frate, piuttosto che un luogo di cura: le terapie mediche quando non erano assenti risultavano del tutto inefficaci, talvolta persino inutilmente cruente: i manuali di medicina del tempo, infatti, prescrivevano autentici supplizi come salassi, incisioni, amputazioni, impiastri a base di sterco di piccione, effluvi di erbe medicamentose, sciroppi a base di estratti di polvere corno di cervo, siero di vipera, coda di scorpione, suffimugi di vapori di mercurio, ecc. Anche le cure di Daciano – nonostante nel 1572 pare avesse creato un  miracoloso farmaco composto da una quarantina di ingredienti, il quale salvò Udine ed i suoi abitanti dal contagio, prodigio che gli valse l’appellativo di «liberatore della Città dopo Dio» – non si discostavano troppo da questo cruento clichè: è tuttavia necessario ricordare che, malgrado l’affannarsi dei medici più solerti, le percentuali di morte dei contagiati rimanevano altissime: nel caso della peste bubbonica il tasso di mortalità sfiorava l’80%; l’esito infausto della peste polmonare, ancor più virulenta e contagiosa della precedente, raggiungeva la totalità dei casi. Secondo Daciano i «segni, overo gli accidenti di quelli che già sono appestati […] non uno ma molti insieme debbono essere, come saria a dire la Febbre continua, e maligna col calore remesso, e quieto nelle parti esterne, mal’interne ardentissime, e continua inquietudine, per essere l’humiditadi del cuore corrotte, e putrefatte onde poi nasce la debolezza, e prostrazione di virtù grande. La faccia livida, cioè di colore di piombo, gli occhi rossi e torbidi. La doglia di testa immensa per li vapori maligni, che dalla prava materia febbrile si levano, e vanno al capo, nel quale poi si causa una mala complessione, e composizione, che spesse volte punge le pelicule del cervello, che genera il dolore immenso alla testa […] Altri accidenti sogliono avenire a gli appesati […] che putrefacendosi le humiditadi del cuore, e quelle poi spirando sempre pravi vapori allo stomaco, e alla boccha, causano destruttione d’appetito, nausea, e vomito spesso. Onde fanno amaritudine grande di boccha, e sete ardentissima, aridità di lingua, e il colore di quella alcuna volta nera, e aspra, e alle volte quasi azzurra […] Ma il segno più certo dell’huomo ammorbato, anzi certissimo, e infallibile fra tutti gli altri descritti, sarà quando che haverà la febbre continua, e maligna accompagnata con pravi, e pestiferi accidenti, e specialmente con Aposteme senza anco alcuno rosore, ò sia dietro le orecchie, ò sotto le braccia, ò nell’anguinaia, overo con carboni neri, e piani in qualsivoglia parte del corpo di maligna qualità, ò con Petecchie pavonazze, e nere, dimostratesi nel principio del male, cioè nelli primi tre giorni di quello». I malati, nonostante questi sintomi terribili, che sicuramente non stimolavano l’appetito, erano comunque tenuti a seguire un preciso regime alimentare: «i cibi dovranno essere di bonissima sostanza e facili da digerire, come sono le pollastre, capponi, faggiani, carne di capretto, tordi, e uccelletti conditi sempre in saporetti acetosi, fatti ò con aceto, ò con  succo di naranzi di mezzo sapore, cotti però più tosto lesse, che roste […] per ripararli dalla sete gli naranzi di mezzo sapore, i pomi o damasceni, e li veradazzi sono ottimi da tenerli in bocca, succiando a poco a poco».Essi, inoltre, dovranno rimanere «più possibile sopra letto molle con monde, e odorifere lenzuola», le membra surriscaldate dalla febbre andranno refrigerate con «cose tali, c’habbino virtù d’infirgidare, e essiccare […] mezza dramma per volta di Trocissi di Canfora, con dui cucchiai d’acqua rosata, overo d’acetosa,e di borragine, e similmente il bolo Armenio Orienale disolto con quattro cuchiari di brodo alterato d’acetosa, e di borragine, e di scordio, e di fiori cordiali, pigliando nel principio del disinare ogni giorno». Alcuni tra i rimedi più praticati nella cura dei pazienti erano senza dubbio il famigerato salasso (ampiamente utilizzato, a scopi terapeutici, fino alle soglie del XX secolo) e, ricorrendo ad un’espressione utilizzata dallo stesso Daciano, il «modo Chirurgicale».Quest’ ultima pratica, piuttosto cruenta, consisteva nell’«applicare subito sopra la giandussa una larga ventosa primieramente asciuta, e poi benissimo scaricarla, estahendo quanto si può il velenoso humore ivi rinchiuso, ungendola poi […] con la Theriaca e oglio rosato molto bene […] Ma se per sorte la natura si rendesse difficile con gli impiastri maturativi à digerire, all’hora si doverà con la lancetta overo Gamautto quanto prima aprirle, e darle un taglio condencente al tumore, e per evacuare più facilmente il velenoso humore ivi adunato. Ma per liberare il misero appestato presto, e da dovero, doverassi subito, che si sentirà ammorbato applicare alcuni vescicatorij in diverse parti del corpo, per evacuare, e divertere i velenosi humori dal cuore» Il salasso, «molto salutifero sarà loro, perciochè molto prohibisce, e smorza il bollore de maligni humori, va applicato secondo dei criteri variabili, poiché «la quantità del sangue, che deve esser estratta in simili mali, essendo i soggetti molti, le complessioni diverse, e le virtù, e etadi loro varie è impossibil cosa è determinatamente descriverla […] Ma nel cavare detto sangue bisogna anco notare se quello sarà buono, ò nò; perché essendo buono, non  si dovera cavarlo ma si bene si doverà riserbarlo per tesero della vita loro, e moderatore de i pravi humori. Ma se estraendo si vederà il sangue esser molto  corrotto, e di mala qualitade, all’hora se ne doverà cavare quella quantità, che parerà al saldo giudicio del perito medico […] il quale nondimeno dovera essere più tosto parco che abondante». Per i casi di peste polmonare, provocata dai «carboni pestiferi overo antraci la curatione consiste in tre cose principali. La prima subito a principio comincerà dalla settione della vena, la quale doverà esser sempre fatta secondo la drittura del carbone, cioè cavare tanto sangue dalla parte istessa del male, che la virtù del patiente possa facilmente comportare. La seconda cosa sarà il scarificarlo assai profondamente, e poscia applicarli una ventosa, con la quale estrarssi più sangue, che si potrà; e poi subito medicarassi con succo di piantagine, e sale, acciò il sangue nelle cicatrici non si coaguli. La terza intentione si eseguirà, reprimendo con gagliardi medicamenti, che digerire e disperdere i pravi humori ivi raggrumati. Ma è da notare, che alla curatione di questi pestiferi carboni non ce rimedio più singulare, ne più perfetto, e securo, che subito, che subito all’apparitione d’essi applicarsi lo cauterio attuale, cioè lo ferro ben affocato, e con quello estinguerli […] poscia essendo quelli pieni di corruzione maligna, si doveranno anchora modificare, applicandoli lo unguento chiamato Egitpiaco, overo l’Ifis, e se per la molta malignità ivi concorsa, questi tali medicamenti non facessero profitto, all’hora sarà bisogno forsi venire a cose più galiarde, overo l’aristolochia cotta nell’aceto, e trita poscia, e applicata, lo vitriolo brusciato, l’arsenico, ò la sandaracchia».
Nonostante al giorno d’oggi le sue cure possano sembrare a volte cruente, a volte pittoresche, sicuramente dalla dubbia efficacia, ciò che colpisce maggiormente del profilo umano e professionale di Giuseppe Daciano sono il grande scrupolo e l’esemplare dedizione con le quali egli svolse la sua missione di medico, capovolgendo l’immagine allora dominante del luminare, dell’accademico – figura ben rappresenata da Don Ferrante, il buffo e pedante erudito di manzoniana memoria ­– che, quasi allo stesso modo di un filosofo, dispensava la sua scienza ex-cathedra nelle aule universitarie, per diventare un medico vero e proprio che “agisce sul campo”, che dedica la sua vita alla cura dei malati di ogni ceto e condizione, esponendosi, come abbiamo visto, a rischi di ogni sorta, anticipando di qualche secolo la familiare e romantica figura del medico condotto (che farà la sua comparsa soltanto alla fine del XVIII secolo), il quale attraversava instancabilmente le campagne e le città per portare nelle case – spesso quelle dei più poveri – cura e sollievo. Un altro aspetto innovativo che egli fece proprio fu l’osservazione del fenomeno patologico inteso come momento fondante dal quale prendere le mosse per l’elaborazione delle diagnosi e delle terapie mediche: ciò non è altro che l’affermazione del metodo sperimentale basato sull’esperienza. Daciano, con questa prassi, mise in discussione il ‘principio d’autorità’ – costituito dal complesso delle teorie e degli assunti degli antichi filosofi, spesso mediati ed interpretati, non sempre correttamente, dalle autorità religiose – dal quale la scienza traeva la sua forza ed il suo prestigio, accogliendo il metodo d’indagine che molti scienziati, a partire da Galileo, fecero propri nel corso del Seicento.

Baldovino IV il "re lebbroso"



Singolare figura di sovrano, nacque a Gerusalemme nel 1161 ai tempi in cui la città faceva parte del Regno cristiano di Terrasanta. La leggenda narra che fu il suo precettore, l'Arcivescovo di Tiro, ad accorgersi per primo della terribile malattia del suo giovane allievo. Egli notò, infatti, che il fanciullo non sentiva fastidio se pizzicato agli arti: questa forma di resistenza al dolore era il primo inequivocabile sintomo della lebbra. Nonostante il male deturpante, Baldovino viene descritto dai cronisti del tempo come un giovane bello, aitante, coraggioso e molto abile nell'uso delle armi. Il giovane e sfortunato sovrano (divenne re nel 1174 alla morte del padre Alamarico), ebbe modo di dimostrare il proprio coraggio quando, poco più che adolescente, si trovò ad affrontare nientemeno che il "feroce" Saladino. Non solo ebbe modo di scontrarsi con lui, ma fu uno dei pochi comandanti cristiani a sconfiggerlo e a sconfinare nel territorio sotto il suo controllo, spingendosi fino alla città siriana di Aleppo (1176). Nonostante la malattia lo minasse sempre più terribilmente aveva l'abitudine di guidare personalmente le proprie truppe in battaglia: a cavallo finché le sue condizioni di salute glielo consentirono, poi (almeno così dicono le fonti...) facendosi trasportare sui luoghi di combattimento su una barella! Negli ultimi anni della sua giovane e tormentata esistenza la malattia lo rese cieco e semiparalizzato. Morì a Gerusalemme nel 1185 ad appena 24 anni.